Il mio risveglio nell’infermeria del centro non fu ne dolce ne brusco, solo un semplice risveglio.
Mi sentivo ancora intontito e intorpidito, ma non nel corpo che era fresco e riposato, nel cervello o meglio nella mente, mi sembrava che qualcosa mancasse, un ricordo, una possibilità, qualcosa che non riuscivo a capire.
Voltandomi verso la finestra da cui entravano i raggi del sole ebbi per un istante una riminiscenza, deja vù o sovrapposizione.
La Stefania, quella ragazza che non conoscevo ma che al tempo stesso sapevo di conoscere, mi sfiorava il viso con una mano guardandomi con i suoi bellissimi occhi e dicendomi di riposare ancora un po’.
Mi misi seduto sul bordo del letto cercando di memorizzare e ricordare quella visione e le belle sensazioni che mi aveva lasciato.
Rimasi lì qualche minuto intervallando occhi chiusi ad occhi aperti ma persi oltre il pavimento, la finestra, gli alberi, la vallata e le montagne fino ad oltrepassare persino il cielo azzurro.
“Ben svegliato Marco, come va?”
Mi voltai vero quei suoni che rimbombavano lievemente nel mio cervello.
“Direi bene dottor Gervasi anche se ho la testa un po’ intorpidita, come se qualcosa non fosse proprio al 100%.”
“Non ti preoccupare, è normale dopo quello che hai passato, tra poco starai meglio. Intanto sono venuto a dirti che questa sera potrai dormire in camera tua. Solo una prescrizione, dovrai prendere per un po’ queste pastiglie, sono dei semplici vitaminici.”
“Bene dottore, non c’è problema. Scusi la domanda, ma quanto sono rimasto in questo stato?”
Il dottore accigliò un po’ lo sguardo prima di rispondermi.
“Non saprei dirlo con certezza, può andare da un minimo di 3 giorni ad un massimo di 5.”
“Quindi sono stato in coma tutto questo tempo?”
Qualche strana sensazione stava attirato la mia attenzione, una mano corse al petto e l’occhio fuggì oltre il cornicione della finestra.
“A dire il vero è una cosa strana, hai solo dormito, eri come…”
Sentivo stringere nella mia mano il ciondolo tibetano che mi era stato regalato.
Mi alzai di scatto e mi diressi a guardare fuori dalla finestra della camera.
“…addormentato… C’è qualcosa? Qualche problema?”
Appena buttai fuori la testa capii da cosa ero stato attirato.
Un musetto puntato all’insù sovrastato da due occhi nerissimi mi stava fissando.
“Dig! Ma che ci fai qui? Non hai troppo caldo? Vai sulle montagne a rinfrescarti, ci vediamo in questi giorni.”
Un pizzico di contentezza era entrato in me.
Quel pazzo d’uno Yak…
“Inutile che provi a dirgli qualcosa, non si è mosso da lì per giorni.”
Dicendo questo il dottore si avvicinò alla finestra giusto in tempo per poter vedere Dig abbassare lo sguardo e trotterellare verso il Gran Sasso.
Gervasi si voltò verso di me e mi guardò fisso, come se volesse capire qualcosa che probabilmente gli stava sfuggendo da sotto il naso.
Pochi secondi, giusto un attimo di incrocio tra sguardi.
“Adesso mi vuole dire qualcosa di quello che è successo?”
Il dottore spostò lo sguardo e si mise a camminare verso la porta, ma prima di uscire si fermò e rispose alla mia domanda.
“Non dovrei essere io a dirtelo, a breve ti ragguaglieranno, ma sappi che nessuno si aspettava che la situazione del controllo Cinese sul Tibet esplodesse proprio in quel momento. Tu sei stato recuperato in extremis e sei comunque riuscito a portare a termine la tua missione.”
“Si, ma della gente è morta per aiutarmi e io voglio sapere perché se era tutto così importante sono stato mandato io praticamente solo.”
Lo volevo dire da tanto, volevo sfogarmi, ne avevo bisogno.
L’istinto però non sempre è la soluzione migliore e a volte avrei preferito che sapesse contare fino a 10 prima di farmi aprire bocca.
Il dottore richiuse la porta che aveva appena aperto e si voltò vero si me con uno sguardo severo e probabilmente arrabbiato.
“Tra quelle persone sono morte mie conoscenze di lunga data e sappi che non è stato per te o per salvare te che sono morti. Sono morti perché hanno sempre creduto in quello che facevano, tanto da prendere strade rischiose pur di far si che il loro ideale potesse sopravvivere.”
Rimasi lì senza aggiungere altro guardando il dottore uscire dalla camera.
“Dovrei proprio imparare a stare zitto a volte.”
Lo dissi non solo fra me e me, ma anche alla solitudine della camera in cui mi trovavo e che avrei abbandonato pochi minuti dopo.