A dire il vero non sapevo esattamente cosa aspettarmi una volta atterrato a Ciampino. Quello che vidi però mi lasciò senza fiato e spaesato.
Tutto l’aeroporto era un viavai caotico di mezzi e persone che non pensavo di vedere. Sembrava che tutto stesse per esplodere, con rischi di incidente ad ogni manovra, aerei che rullavano con persone attorno che rischiavano di essere investite, mezzi che sfrecciavano ovunque che nemmeno il traffico a Milano o Napoli era mai stato così. Messo piede a terra fui investito anche dai suoni di quel caos oltre che dalla visione. Sembrava veramente un’esodo di massa, ma in effetti poteva anche considerarsi tale.
“Lei è Marco Taddia?” Mi chiese un militare avvicinandosi quasi al mio orecchio. Io risposi semplicemente annuendo poiché ero ancora stupito da quell’esodo di massa. Senza mezzi termini fui messo all’interno di un mezzo di servizio e trasportato frettolosamente in un’area relativamente più tranquilla dell’aeroporto vicino ad un hangar semi aperto.
Sceso dal mezzo mi trovai davanti la figura non certo gioviale, ma anzi molto tesa, del Tenente Corvini.
“Seguimi ti devo spiegare troppe cose e non abbiamo tempo.” Detto quello si girò avviandosi verso l’interno dell’hangar e io mi misi a seguirlo. Avevo troppe cose che mi giravano per la testa e non sapevo da dove iniziare.
“Non posso dirlo in altro modo. Il Centro è sotto minaccia. Si stanno muovendo…” Il tenente aveva iniziato a parlare mentre camminava e io da dietro tenevo il passo ascoltando al meglio. Una volta entrato nell’hangar e abituatomi alla luminosità ridotta intravidi una cosa che mi lasciò senza fiato.
“Ma quello cosa sarebbe?”
Il tenente si fermò e si girò verso di me quasi stupito dalla mia domanda. “Intendi l’F104?” “No. Intendo cosa c’è coperto da quei teli mimetici.”
La faccia del tenente si fece più grave. “Quello è il motivo per cui ti ho fatto venire qui. Dobbiamo portarlo via senza che cada nelle mani sbagliate. Non possiamo permetterlo capito!”
Le parole del tenente suonavano più come un accorato appello che ad un ordine. Sembrava veramente ci tenesse più che a qualunque altra cosa.
“Devi capire che siamo sotto attacco. Il Centro è sotto attacco e il Maggiore e il Dottore sono rimasti indietro per permetterci di portare via tutto in sicurezza.”
Come d’un tratto fui assalito da fortissime sensazioni. Mi voltai di scatto verso quell’oggetto e poi mi uscì forte e netto: “Come il Maggiore e il Dottore sono rimasti al centro. Dig dov’è? Devo andare a riprenderli.”
Il tenente mi afferrò un braccio e poi disse: “No Marco, la questione è più complessa. Devi darci il tempo di portare via tutto in sicurezza. Stiamo aspettando che arrivi l’Antonov 225 per permetterci di trasportare via quel ‘coso’.”
Era chiaro che il tenente non volesse dirmi cosa fosse eppure a me sembrava di sapere cosa fosse.
“Ma insomma cosa dovrei fare allora?!” Dissi spazientito.
“Parte dell’esercito italiano via terra sta arrivando per mettere sotto controllo quest’area, allo stesso modo altri stati, come USA, Francia e Inghilterra hanno messo a disposizione mezzi per il controllo aereo. Hanno invocato l’aiuto della NATO ma non tutti hanno aderito. Quel bastardo di Baldini è riuscito a portare dalla sua parte troppe persone e non oso immaginare come abbia fatto.” La rabbia si leggeva apertamente sulla faccia del tenente e non faceva nulla per trattenerla. Sul mio viso invece doveva leggersi la delusione visto poi come proseguì il tenente.
“Abbiamo già preparato per te l’F104 che vedi…”
Ormai ci eravamo avvicinati a quella che sembrava essere un’area di controllo e un addetto interruppe le parole del tenente.
“Tenente! Abbiamo tre segnali a quasi mach 3 in avvicinamento alla nostra posizione. Abbiamo i caccia impegnati a contenere le altre forze aeree. Sarà dura per la contraerea a quella velocità.”
“Merda! Marco devi andare subito. Là puoi trovare la tua plugsute e questo è un regalo dal dottor Gervasi. Non chiedermi cosa sia o come funzioni perché non mi ha detto nulla.”
Mentre mi dirigevo dove doveva essere la plugsuite, aprii la scatolina bianca che il tenente mi aveva dato.
Rimasi un poco inquieto quando vidi che era un cubetto di qualche centimetro che assomigliava come colorazione a quegli strani dadi da dungeons and dragons di colorazione verde trasparente con quelle polverine riflettenti metalliche. Allegato solo un bigliettino con su scritto: U.N.O.
Lo misi da parte per mettermi la plugsute. Mi stava bene e sembrava la mia, ma per qualche motivo non me la sentivo uguale, come fosse un’altra versione ancora migliore.
Stavo per lasciare tutto lì quando mi ricorda il dosatore datomi dal dottore. Lo fissai per qualche istante a riflettere poi selezionai una dose e lo usai alla base del collo. Una forte scarica mi attraversò tutto il corpo. Mi sentivo pieno di forze ed energie. Decisi di portarlo con me mettendolo in una tasca apposita della plugsuite.
Il mio dilemma era su U.N.O. e così presi il cubetto fra le dita e notai che era gommoso, quasi un gel e la forma cubica non sembrava quindi rigida. Lo guardai verso la luce e si poteva vedere come un movimento forse dettato dai riflessi di luce. Dalle dita che lo afferravano poi sentivo un flebile solletico e quando per caso lo misi sopra la plugsuite vidi che dal verde divenne del colore della plugsuite, un bianco quasi ambrato, ma se lo toglievo dalla vista ritornava verde.
“Marco sei pronto?!” Le parole del tenente mi colsero di sorpresa tra i miei pensieri. Per riflesso spiaccicai sull’avambraccio sinistro il cubo verdognolo che sparì alla mia vista.
“Arrivo subito!” Rimasi un’attimo interdetto, non lo vedevo più e non riuscivo più a staccarlo, così preso dalla fretta lo spalmai meglio sull’avambraccio e mi diressi verso l’F104 dove mi stava già aspettando il tenente.
“Allora questo non è un comune F104, lo abbiamo risistemato. Ha una velocità superiore e armi più potenti. Per i dettagli avrai in comunicazione Alberto e Guido che ti aiuteranno. Ora devi partire subito, non c’è più tempo.”
In men che non si dica ero già alla fine della pista di rullaggio in attesa del via alla partenza. Mentre stavo controllando la strumentazione e avviando la comunicazione con Alberto e Guido sentii uno strano rumore.
“Cazzo!” Mi lascia sfuggire una colorita esclamazione vedendomi atterrare a pochi metri l’Antonov 225 con tutta la sua stazza e un’aggiunta sopra che doveva essere un’area di carico aggiuntiva per trasportare il prezioso ‘coso’ del Centro, ma che a me sembrava più che altro un’uovo dalle linee schiacciate.
“Marco hai detto qualcosa con noi?” La voce di Alberto mi entrò nel casco facendomi riprendere dallo stupore.
Anche questa volta, senza sapere come e perché mi stavo ritrovano in un’assurda situazione che non capivo e che era evidentemente più grande di me. Perché dovevo sempre essere così…