Lo scambio di sguardi tra me e lo Yak durò qualche secondo, io lo guardavo stravolto e dubbioso mentre lui mi guardava curioso sbuffando.
Continuando a guardarlo negli occhi allungai una mano per toccargli la testa, non fece alcun movimento e si fece toccare tranquillamente.
Io ero un po’ perplesso da quella situazione alquanto strana, da dove era spuntato e perché?
Un rumore richiamò la mia attenzione e mi voltai di scatto verso destra.
Un uomo, un tibetano, era lì in piedi che mi fissava sbalordito accarezzare lo Yak.
Non feci in tempo a dire nulla, come se avessi saputo il tibetano, che si girò e scomparve nel buio della notte.
Lo Yak invece era ancora lì che mi fissava incuriosito e senza rendermene conto mi uscì una frase.
“Io sono Marco e tu?”
Non posso giurarci, era buio ed ero abbastanza stanco, ma sono quasi sicuro di aver sentito lo Yak rispondermi “Dig. Seguimi.” per poi girarsi e iniziare a muoversi.
Rimasi lì a fissare l’animale che si allontanava con gli occhi sbarrati e senza pensare a nulla, poi lo Yak si girò verso di me, mi guardò e poi riprese a muoversi nella stessa direzione.
Raccolsi le mie poche forze e facendomi coraggio seguii l’animale.
Nel giro di pochi minuti arrivammo in vista di luci, era l’accampamento dei Tibetani.
Entrai nell’accampamento guidato dallo Yak, mi sentivo gli occhi di tutti addosso, ma nessuno diceva nulla e intanto lo Yak si era fermato e mi guardava.
Mi chinai per accarezzare un po’ lo Yak e una voce in un inglese tremolante mi raggiunse.
“Scusa. Tu chi essere? Cosa fare qui?”
Le domande erano state pronunciate da un giovane ragazzo probabilmente mio coetaneo e la mia risposta non fu certo in un’inglese migliore, anzi, ma bastò per essere capito.
Mi inventai di sana pianta di essere un trekkers, da non confondersi con uno di quei fannulloni fan di star trek, venuto in Himalaya per ritrovare la pace interiore e il contatto con la natura.
Mi venne fuori così bene e con una facilità quella menzogna che non potevo credere a me stesso, ancora una volta ero negativamente stupito di me stesso.
In poco tempo fui invitato a cena, se così la vogliamo chiamare, con il capo e alcuni anziani.
Tutta la serata parlammo attorno al fuoco del Tibet, della natura, di quello che facevano per vivere e dell’occidente.
Ovviamente la comunicazione tra me gli anziani avveniva tramite il giovane che scoprii essere tornato da anni di studi a Lhasa.
Si vedeva che il padre del ragazzo, il capo, non era molto contento della scelta di suo figlio di studiare e abbandonare il loro piccolo villaggio, ma lo capiva ugualmente e si vedeva che era comunque fiero di lui.
Perso da quei discorsi e da quella simpatia che mi era stata riservata da quelle persone mi scordai totalmente della mia missione e del manufatto.
Solo poco prima di andare a riposare attorno ad una catasta di sacchi di sale, quello che i tibetani trasportavano, intravidi una strana scatola a forma di cubo di circa 30cm appoggiata vicino ai giacigli degli anziani.
Non feci in tempo a mummificarmi nel mio sacco a pelo che ero già duro come un asso.
I sogni di quella notte non li ricordo in dettagli, ma ricordo le emozioni che mi portarono a svegliarmi di soprassalto, rotolando di qualche metro insaccato com’ero, in piena notte.
Odio, paura, terrore e morte.
Rimasi lì, sentendomi dentro quelle brutte sensazioni, solo alcuni istanti a fissare la moltitudine di stelle che tempestavano il cielo, la via lattea era meravigliosa.
Fui svegliato la mattina dal ragazzo Tibetano con uno scossone al sacco a pelo.
Quello Yak era lì che mi fissava nuovamente.