La carovana era già pronta per partire e io ero ancora intontito dalla stanchezza del risveglio.
Non mi interessava più recuperare manufatti o tornare al centro, volevo solo capire maggiormente quella gente.
Però fui riportato alla realtà dallo stesso capo che mi venne in contro per consegnarmi un dono.
Mi salutò e mi fece gli auguri di un buon proseguimento di viaggio e poi mi consegnò da parte di tutto il gruppo il cubo, proprio quel cubo che pensavo essere il manufatto.
Quando me lo diete rimasei interdetto, una parte di me era triste e si sentiva sporca, cattiva.
Non avevo nemmeno dovuto rubarlo, truffarli o chiederlo, me lo avevano dato spontaneamente senza che io dicessi nulla.
Stavo male dentro e non potevo fare altro che ammirarli ancora di più per la loro umanità.
Mi spiegarono che dentro c’era una cosa che avevano trovato fra i monti nei loro viaggi e che nessuno di quelli a cui avevano chiesto sapeva cosa fosse e quindi hanno pensato che un “occidentale” come me poteva trovare meggiori risposte di loro sperduti nell’Himalaya.
Le nostre strade dovevano dividersi, il compito che volevo evitare era infine venuto a esigere l’attenzione che meritava.
Mi voltai per salutare tutta la carovana e quello stupido Yak era li che mi guardava sempre incuriosito.
Vedendolo non potei che chinarmi e accarezzarlo un po’ sulla testa guardandolo negli occhi sorridendo, un po’ come normalmente si farebbe con un gatto o con un cane.
L’anziano capo mi guardò e si mise a ridere di gusto, poi come sempre tramite il giovane viglio mi fece capire che quello Yak non dava mai troppa confidenza nemmeno a loro.
Lì poi mi disse una di quelle frasi che almeno una volta nella vita ogni essere umano vorrebbe sentirsi dire:
“Tu devi essere proprio un uomo giusto e sincero.”
Nel dirlo si tolse un ciondolo dal collo e me lo consegnò dicendomi che era della loro famiglia da diverse generazioni ma che voleva lo tenessi io, perché riteneva sarebbe stato in buone mani.
Io rimasi assolutamente senza parole e senza fiato, guardai solo il giovane figlio del capo che mi guardava e approvava.
Il nostro breve ma intenso incontro finì lì, così, senza più proferir parola.
Piano piano la carovana prese la strada e io mi avviai con un po’ di riluttanza verso li punto C segnato sulla mappa.
Quello che mi da più rammarico oggi, ricordando quegli eventi, è non riuscire a ricordarmi i nomi di quei Tibetani.
Chiudendo gli occhi posso ancora vedere le loro facce, stanche, rovinate dalla fatica, ma di una serenità e cordialità che non ho mai più trovato con una concentrazione simile.
Stavo bene con loro e in quelle poche ore una parte di me aveva deciso di prendere residenza in quei luoghi.
Adesso però non riuscire più a ricordare i nomi di quelle persone, per me così strani e buffi, mi fa sentire come di averli uccisi definitivamente, persi per sempre nello scorrere incessante del tempo.
Perché?
Perché non riesco a ricordarli?!
Più mi sforzo e meno ci riesco…
Stavo camminando già da ore quando guardai lo correre impietoso del tempo sul cronomentro, il sole era alto in celo ed erono già passate più 53 ore dall’inizio della missione, avevo perso il primo rientro, ma era ovvio, non avrei potuto far prima se non rinunciando.
La strada ora però era molto più lunga e quasi sicuramente avrei perso anche il secondo rientro, così decisi di prendermela un po’ più con calma aspettando il terzo rientro previsto ad 84 ore dall’inizio della missione.
Mi fermai per mangiare qualcosa e mi misi a guardare il ciondolo che mi era stato donato, aveva una forma di triangolo isoscele, da un lato era liscio e dall’altra…
Un’impennata di adrenalina, sudori freddi lungo la schiena.
C’erano in rilievo i contorni e gli stessi tratti presenti nel simbolo dell’organizzazione, che era però un triangolo equilatero.
Intanto un eco in lontananza saettava tra le varie vallate himalayane cercando forse di raggiungermi.
Una serie di colpi di mitraglietta semi automatica forse di vecchia fabbricazione Russa.