Raffaele stava guidando la macchina ed io ero seduto al suo fianco mentre Fulvio era seduto dietro. Raffaele mi aveva convinto ad andare con lui a pranzo, mi aveva detto che mi avrebbe portato in un posto speciale a conoscere una persona speciale. Eravamo abbastanza silenziosi nella vettura e io stavo facendo vagare un po’ la mia mente guardando le strade del mio paese che non sembravano essere cambiate così tante.
La sera prima Raffaele aveva tenuto una riunione con molti membri di movimenti diversi provenienti da varie zone d’Italia o in videoconferenza tramite internet in cui si era discusso molto su cosa fare e come organizzarsi per cercare di cambiare le cose.
Raffaele era tenuto, dopo le sue apparizioni in tv e attività informative sul web, molto in considerazione come se la sua opinione fosse più importante e giusta di quella degli altri. Io lo ammiravo, lo avevo sempre ammirato a dire il vero, fin dal primo giorno che lo ebbi come uno dei miei animatori capo durante la mia prima esperienza come animatore ad estate ragazzi. Devo seriamente ammettere di non sapere bene il perché, ma mi dava fiducia e sicurezza nelle sue decisioni, spesso perentorie e non sempre equilibrate ma che volevano cercare a tutti i costi di far andar bene le cose. Imparando a conoscerlo con il tempo avevo capito quanto tenesse a noi come persone e lo dimostrò ampiamente quando io rimasi ucciso, impegnandosi al massimo per dare un senso a tutto quanto. Trovavo tremendamente ironico per me che io in realtà fossi ancora lì al suo fianco vivo e vegeto.
Mentre mi stavo perdendo in tutte quelle congetture la macchina si era fermata e Raffaele mi stava fissando.
“Siamo arrivati. Come mai quel sorriso beffardo?”
Non feci in tempo a rispondere che Raffaele era già sceso, così mi sbrigai a seguirlo. Immediatamente mi resi conto che qualcosa non stava andando proprio per il verso giusto. Eravamo fermi davanti alla casa dei miei nonni, situata in un quartiere popolare di molti decenni prima, e Raffaele si stava dirigendo proprio verso l’entrata del loro palazzo. Guardai Fulvio, al mio fianco, che non disse nulla ma con un cenno del capo mi fece intendere che non c’erano problemi, così pensai che fosse solo una coincidenza e che fossimo diretti ad un altro appartamento.
Ed invece proprio no, l’appartamento a cui suonò Raffaele era proprio quello dei miei nonni. Per un’istante mi sentii paralizzato e restio ad avanzare ma Fulvio da dietro mi diede un lieve cuccio che mi fece oltrepassare la porta di casa ormai aperta.
L’interno era tutto esattamente come lo ricordavo, stesso arredamento, stesso odore ma non più stessi nonni. Mio nonno mi apparve davanti appena Raffaele si spostò di lato per fare le dovute e necessarie presentazioni. Era invecchiato tantissimo in quei mesi e sembrava come spento, senza più quella scintilla vitale che avevo sempre visto in lui. Mia nonna era invece affacendata davanti ai fornelli ma nemmeno lei era più quella di prima, sembrava essersi abbassata e il suo viso da bello pieno di era fatto quasi scavato, doveva aver perso molti chili. Vederli in quello stato mi mise uno strano senso d’angoscia interiore. Ovviamente però non potevo dire nulla, io non ero io.
Provai a rimanere in silenzio durante il pasto, ma era difficile perché Raffaele provava sempre di tirarmi in mezzo, di conoscermi e farmi conoscere e io dovevo stare attento a mantenere il filo con la storia di copertura. Lo stress lentamente cresceva lasciandomi sempre più frastornato.
La nota positiva era il cibo, gusti che e odori che avevo percepito da una vita che ritornavano in me con un piacere che non avrei pensato. Non riuscivo a contenere bene la cosa poiché più volte fui ripreso da commenti di mia nonna che compiaciuta mi guardava mangiare.
Al termine del pranzo venne la parte peggiore. Fulvio fu chiamato al telefono probabilmente dal Centro e si appartò in un’altra stanza a parlare, mia nonna andò in cucina a lavare tutto mentre io, Raffaele e mio nonno andammo nello studio.
Una stanza in cui a me da piccolo era sempre stato vietato entrare e che anche da adolescente avevo visto ben poche volte. In realtà non c’era nulla di valore, ma era un po’ una stanza della memoria in cui mio nonno andava per rilassarsi e appunto non dimenticare.
Raffaele partì spiegandomi come mai si erano conosciuti ed erano diventati amici e venni così a conoscenza di quei giorni successivi alla mia morte in cui sembrava che una semplice scintilla potesse incendiare un intero paese.
Sentirlo dal racconto di chi vi era stato e non da ricostruzioni e ricerche che poi avevo fatto in quelle ultime settimane, mi lasciava una certa inquietudine e un senso di responsabilità che però era privo di fondamenti reali. Io ero stato usato e questo non riuscivo proprio ad accettarlo, eppure c’era un conflitto e non piccolo in me.
Ben presto mio nonno incominciò a raccontarmi tutte le sue avventure di guerra, come se non le avessi già sentite decine, se non centinaia di volte, ma ovviamente questo lui non poteva saperlo perché io non ero più io e in quella situazione tutto si stava mischiando rischiando di farmi cadere in fallo.
Mio nonno era stato prigioniero di guerra in Giappone, uno dei pochi italiani al seguito del console mandato nel paese del sol levante. Purtroppo l’8 settembre, il giorno dell’armistizio fu catturato e rinchiuso in un campo di concentramento Giapponese. Lì si concentravano i maggiori racconti di mio nonno, amicizia, lotta per la sopravvivenza e quanto di più disumano potesse esserci. Però questa volta qualcosa cambiò e mio nonno dopo quello che di solito era il finale, la sua liberazione da parte degli americani qualche giorno prima dello scoppio della bomba su Hiroshima, ebbe un attimo di pausa e poi proseguì.
“Penso che forse sia venuto il momento di raccontarlo a qualcuno. Io ero un militare durante il periodo di guerra, ma non ho mai ucciso nessuno e ancora non riesco a credere che sia stato possibile passare 5 anni di conflitto senza aver mai dovuto uccidere nessuno. Però quel giorno in cui gli americani arrivarono a liberarci io non ero nelle baracche assieme agli altri prigionieri, ero nell’ufficio del generale giapponese con cui ero riuscito ad entrare tanto in confidenza da essere diventato il suo ‘schiavo’ personale. Quando partì l’attacco a sorpresa io sfruttai l’occasione afferrando un busto di bronzo e colpendolo alla nuca. Presi la spada che era sul muro e corsi verso le baracche andando ad aprire la via di fuga ai miei compagni con cui riuscimmo a raggiungere gli americani che ci trassero in salvo. La possibilità di averlo ucciso mi tormenta da ormai più di sessant’anni.”
Il suo sguardo era vuoto e perso probabilmente in un limbo di pensieri persi nel passato, ma si abbasso ugualmente ai piedi della grande scrivania della stanza aprendo uno scomparto segreto ed estraendo una Katana.
“Questa è la spada che ho preso da quell’ufficio. Non l’ho mai usata, l’ho solo conservata. Volevo darla a mio nipote, ma visto quello che è successo vorrei la tenessi tu Raffaele.”
Raffaele rimase interdetto ma affascinato.
“La accetto anche se non mi sento degno di poterne essere il padrone.”